STATO-MAFIA, UN'ATTRAZIONE FATALE

2023-01-19 11:56

Salvatore Azzuppardi Zappalà

STATO-MAFIA, UN'ATTRAZIONE FATALE

I rapporti fra Istituzioni e mafia sono vecchi quanto l’Italia unita, tanto da poterli considerare come un'attrazione fatale, in cui ha perso solo lo Stato

Il tema dei rapporti fra le istituzioni e la mafia è vecchio quanto l’Italia unita, come conferma il loro frequente richiamo negli studi che li hanno analizzati, tanto da essere indotti a vederli come una perversa attrazione fatale, in cui però a venire distrutto è solo lo Stato, che di quelle istituzioni è l’espressione.

Commentando sul Fatto Quotidiano l’arresto di Matteo Messina Denaro, Gian Carlo Caselli ha ricordato che «Va colpito il lato oscuro del pianeta mafia, le “relazioni esterne”, quell’intreccio di coperture, complicità e collusioni che sono la spina dorsale del potere mafioso», sollecitando i politici, di qualunque schieramento, ad essere meno assenti. Caselli ha citato Carlo Alberto dalla Chiesa, che aveva denunciato i profondi legami della mafia con quei pezzi del modo legale che genericamente possiamo definire “classi dirigenti” (politica, amministrazione, finanza, istituzioni, informazione, società civile…).

 

Alle sacrosante parole di Caselli fa da contraltare lo stupore di quanti danno l’impressione di avere scoperto solo ora che i mafiosi non girano con la coppola e la lupara, ma sono pericolosi criminali che si muovono abilmente, coltivando preziose relazioni con quella parte delle classi dominanti di cui parlava dalla Chiesa, cioè coloro che prosperano nella putrescente palude del concorso esterno.

 

Temiamo che, finita l’euforia, in qualche caso di facciata, i proclami di questi giorni – come già  in passato le denunce di dalla Chiesa e di innumerevoli altri fedeli servitori dello Stato - cadranno nel dimenticatoio, come avviene da un secolo e mezzo.

 

È dai primi anni dopo l’Unità d’Italia che i mafiosi hanno cominciato a tessere la loro tela («Il mafioso è come un ragno. Costruisce ragnatele di amicizie, di conoscenze, di obbligazioni», ha affermato a suo tempo il collaboratore della giustizia Antonino Calderone) e non hanno mai smesso.

 

Il primo a denunciare le collusioni fra vaste fasce della società e i mafiosi fu Leopoldo Franchetti, che nel 1876, nella sua celebre inchiesta, puntò ripetutamente il dito sulle «relazioni fra i malfattori di mestiere e le classi agiate e ricche della popolazione». Sono le “classi dominanti”, come le definisce, ad avere permesso ai mafiosi di far crescere il loro odioso potere, ma, se queste lo volessero, potrebbero facilmente, e senza l’aiuto dello Stato, «schiacciare la classe facinorosa e distruggere il suo predominio sull'opinione pubblica per mezzo del proprio». Purtroppo, conclude Franchetti, non si può fare affidamento sulle classi dominanti perché sono le prime a trarre vantaggio dal connubio con i criminali.

 

Quello di Franchetti rimase solo un auspicio e l’influenza dei mafiosi si estese e attraversò lo Stretto, come testimoniano, trentaquattro anni dopo, le parole di Luigi Sturzo che nel 1910, riguardo al processo per l’omicidio di Emanuele Notarbartolo - direttore generale del Banco di Sicilia, considerato la prima vittima eccellente della mafia – scrisse: «chi ha seguito con attenzione il processo vedrà che quest’ultimo è un effetto della mafia, che stringe nei suoi tentacoli, giustizia, polizia, amministrazione, politica. Di quella mafia che oggi serve per domani essere servita, protegge per essere protetta. Ha i piedi in Sicilia ma afferra anche Roma, penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio, viola segreti, sottrae documenti, costringe uomini creduti fior di onestà ad atti disonesti e violenti.»

 

Diciannove anni dopo, i tentacoli di cui parla Sturzo riuscirono a fermare anche un eccellente avversario della mafia  quale fu Cesare Mori.  Questi, una volta debellata la componente armata delle bande mafiose, si stava avvicinando troppo a quegli esponenti delle classi dominanti che con i mafiosi avevano convissuto da decenni, «finché un deputato fece in modo che fosse trasferito.»

 

Un’altra importante testimonianza sulla capacità dei mafiosi di infiltrarsi nella società civile ce la dà Corrado Alvaro, in un articolo del 1955 pubblicato sul Corriere della Sera. Lo scrittore calabrese parlando dei suoi anni giovanili, osservava, a proposito dei mafiosi locali, che «nessuno in paese [San Luca d’Aspromonte, n.d.A.] li considerava gente da evitare, e non tanto per timore, quanto perché formavano ormai uno degli aspetti della classe dirigente». E aggiungeva, profeticamente: «Il potere occulto, creato dalla violenza, conquista il potere ufficiale e finanziario».

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È passato un secolo da allora, e le cose non sono cambiate. C’è sempre stata da parte di tutti i governi, nessuno escluso, la volontà politica di non alterare equilibri che facevano comodo a tanti, così la risposta alle denunce di connivenze o infiltrazioni mafiose anche nei gangli vitali dello Stato - che venissero da Sturzo nel 1910 o dalle diverse commissioni parlamentari succedutesi in età repubblicana - sono state l’inerzia e il silenzio.

L’inerzia e la mancanza di consapevolezza della gravità del problema hanno fatto si che aumentasse considerevolmente il peso delle cosche nella selezione di chi aspira a cariche elettive, con conseguenze disastrose per la società civile.

 

Negli ultimi trentacinque anni in particolare, si sono paurosamente allargate le maglie della selezione della classe politica, anche in presenza di candidati che eufemisticamente possiamo definire di dubbia reputazione. Questo non solo nelle tre regioni storicamente afflitte dal cancro mafioso, ma a livello nazionale. Non vorremmo essere arruolati fra coloro che rimpiangono un passato che non sempre era migliore del presente, ma ci sembra che né Enrico Berlinguer né Giorgio Almirante abbiano mai candidato, o si siano sognati di candidare, soggetti anche solo sospettati di avere rapporti con le cosche.

 

Che fare, dunque?   Se ne parlerà nella seconda parte.

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