Che fare, dunque, per combattere il pericoloso connubio fra mafie e istituzioni, fra mafie e classi dirigenti, più volte denunciato nei 160 anni di stato unitario, e mai seriamente contrastato? ci siamo chiesti in conclusione della prima parte di questo rapido excursus.
Dopo la cattura di Messina Denaro in tanti hanno denunciato questo stato di cose su cui troppi hanno chiuso gli occhi, ma temiamo che passata la bufera si tornerà alla disattenzione dei più e alle sfacciata complicità dei collusi.
La risposta a quella domanda non è semplice. Il male è così diffuso che anche se le istituzioni e i partiti agissero per isolare i fiancheggiatori, questo non basterebbe se la stessa cosa non avvenisse negli altri settori: avvocati, notai, medici, commercialisti, magistrati, appartenenti alle forze dell'ordine, burocrati di diverso livello, industriali e dirigenti. Ciascuna professione, ciascuna categoria deve impegnarsi nell'isolamento delle mafie.
A questi comportamenti virtuosi, personali o di gruppo, bisognerebbe affiancare l’educazione (fatta seriamente) dei giovani alla legalità, il sostegno all’occupazione e alla piccola e media imprenditoria e altro ancora, i cui risultati però si vedrebbero solo nel tempo.
Bisognerebbe innanzitutto potenziare la magistratura inquirente e la polizia giudiziaria e applicare rigorosamente le norme in vigore, anziché indebolirle, come si è fatto o si sta tentando di fare, da parte di alcuni. Una di queste norme è il 41-bis, che si è rivelato uno strumento formidabile, tanto da avere scatenato nel 1993 la furia stragista dei capimafia di allora, per arrivare alla vergognosa “trattativa” a cui le più alte cariche dello Stato si sono piegate in nome di un malinteso male minore.
È di ieri la notizia che un capomafia a cui erano state confiscate delle aziende, continuava a gestirle tramite i familiari, pur trovandosi in regime di 41-bis. Non ci meravigliamo che questo sia accaduto (potenza della trattativa!), ma come è potuto accadere che aziende confiscate siano rientrate, di fatto, nel possesso del proposto?
Qualcuno ce lo dovrebbe dire.
(Obiter, dato che le parole sono importanti e vanno usate con criterio, abbiamo usato il termine “capimafia” non a caso ma perché il termine “boss” per quella gente è un titolo onorifico).
Certe anime belle – per non parlare di quelli in malafede - ritengono invece che norme come il 41-bis, la confisca dei beni di provenienza illecita, le intercettazioni telefoniche, perfino le procedure per lo scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose, violino i diritti umani e siano contrarie ai principi di uno stato di diritto. Non si rendono conto che con questo appellarsi a principi certamente nobili ma che nel contrasto alla mafia sono dannosi, fanno il gioco di chi concretamente ha avvelenato la società civile del nostro Paese, sta avvelenando l’economia e ha impedito e continua a impedire lo sviluppo non solo delle regioni meridionali, ma forse di tuto il Paese.
Che fare, dunque?
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 gli italiani supplirono con l’iniziativa personale al vuoto istituzionale che ne era derivato. Oggi, con la resa alle mafie di molti partiti, di esponenti delle professioni, dell’economia, delle forze dell’ordine e della magistratura, i cittadini italiani, come avvenne allora, possono riempire quel vuoto. Proprio i comuni cittadini, perché, come scrisse a suo tempo Leopoldo Franchetti, non si può fare affidamento sulle classi dominanti perché sono le prime a trarre vantaggio dal connubio con i criminali.
Ci si perdoni l’enfasi, che può apparire retorica, ma noi comuni cittadini siamo chiamati tutti a una nuova guerra di liberazione, una guerra da combattere non con le armi ma con la buona condotta, con l’esempio che ognuno di noi può e deve dare, col sostegno a quei magistrati, poliziotti, pubblici impiegati, amministratori locali, insegnanti, politici che, al contrario di altri loro colleghi, continuano a svolgere il proprio lavoro non al servizio delle consorterie, ma della Repubblica, cioè di tutti noi.