Il 30 aprile ricorre il quarantesimo anniversario dell’uccisione di Pio La Torre, padre della normativa antimafia.
Il padre di Pio, Filippo, era un contadino, proprietario di un piccolo “giardino”, come da noi vengono chiamati gli agrumeti. La madre, che Filippo aveva conosciuta durante il servizio militare e poi sposata, era di Muro Lucano, in Basilicata.
Questa ragazza, figlia di un pastore, aveva già avuto un figlio da un nobile del suo paese. Il bambino, allevato dalla famiglia del padre naturale, diventò poi magistrato. La diversa “fortuna” del primo figlio, spinse la madre di Pio La Torre ad impartire agli altri figli un’educazione indirizzata agli studi, per far sì che non si sentissero inferiori nei confronti del fratellastro, che occupava già un posto di primo piano nella società.[1]
“Pio La Torre era un individuo duro, tenace e testardo. Un pragmatico che voleva unire alla teoria la pratica, a cui piaceva attuare quello che si decideva, che voleva concretizzare le idee e le discussioni. Uno che voleva vedere i risultati dell'azione politica. E la mafia non spara nel mucchio. La mafia uccide chi la combatte e chi le dà filo da torcere. La Torre intendeva aggredire i problemi in modo pratico, parlando meno e agendo di più".[2]
Non ancora ventenne, nell’immediato dopoguerra si fece paladino delle lotte contadine per reclamare l’assegnazione delle terre a chi le coltivava e le faceva produrre, e questo gli attirò da subito le attenzioni dei potenti locali, sia politici che mafiosi. Accusato ingiustamente di avere colpito un carabiniere durante una manifestazione, fu condannato a un anno e mezzo di carcere, scontati per intero.
Tutta la sua vita fu dedicata alla difesa degli oppressi e di conseguenza alla lotta agli oppressori più vili, i mafiosi, per combattere i quali presentò il Disegno di Legge per l’introduzione nel nostro Codice Penale, del reato di associazione mafiosa (il 416-bis) e per la confisca dei beni di provenienza illecita.
Con le parole dei due protagonisti di un romanzo ambientato in quegli anni, vogliamo rendere omaggio a questo grande palermitano, che ha pagato con la vita il suo impegno per il riscatto della nostra terra e che onora la Sicilia controbilanciando l’infamia di quelli che Pino Arlacchi ha efficacemente definito Gli uomini del disonore.
"La mattina del 30 aprile, a causa di mezza giornata di sciopero dei bancari Francesco non era al lavoro e poté ascoltare al giornale radio di mezzogiorno una notizia che lo fece piangere di rabbia.
Quella mattina a Palermo era stato ucciso, insieme al suo autista, Pio La Torre, storico leader del PCI in Sicilia, da sempre alfiere della lotta alla mafia.
In quel momento La Torre era la speranza dei siciliani onesti e l’incubo dei mafiosi, per la sua proposta di legge sull’istituzione del reato di “associazione mafiosa” e per la confisca dei loro patrimoni, misure che certamente, se tradotte in legge, avrebbero dato un’arma in più allo Stato per combattere la mafia.
La sera Francesco chiamò Lia. Sapeva che anche lei sarebbe stata sconvolta e voleva esserle vicino.
«Ciao Fra, lo sapevo che eri tu» rispose Lia con voce triste, poi si mise a piangere, anche lei di rabbia. «Bastardi, porci, bisognerebbe sbatterli in galera senza processo e farli marcire là dentro.»
Francesco ascoltò lo sfogo senza interrompere. C'era poco da aggiungere. Condivideva i sentimenti di Lia e non pensava, come sostenevano alcuni, che ci volesse la pena di morte. Quelli la morte la mettevano in conto nello svolgimento delle loro attività criminali. Per dei parassiti abituati a vivere alle spalle degli altri con minacce e estorsioni, la pena peggiore sarebbe stata essere condannati a lavorare.”
Tratto da Ti ricordi quella strada … di S. Azzuppardi Zappalà, Ed. Algra
[1] Le informazioni sulla famiglia di Pio La Torre sono tratte da “Pio La Torre un racconto su Palermo e la Sicilia, il PCI e la mafia” di Giovanni Burgio, edito dal Centro di Studi e di Iniziativa Culturale Pio La Torre, di Palermo.
[2] Ibidem