Le drammatiche immagini degli ucraini in fuga dalle loro case stringono il cuore, e a chi mantiene una certa equità di giudizio tornano in mente altre immagini simili viste (e troppo presto dimenticate) in altre aree del mondo, in particolare in Medio Oriente, dalla Palestina, alla Siria, all’Iraq e altri paesi.
Ma se andiamo più indietro nel tempo, ricordiamo che anche molti italiani hanno vissuto la stessa traumatica esperienza, in patria e nelle ex colonie.
Riporto la commovente testimonianza di Dora, amica gemella (perché nate lo stesso giorno) di mia mamma, che nel 1943 dovette lasciare dall’oggi al domani la sua casa, i suoi averi, tutto il suo passato, quando le truppe britanniche arrivarono ad Asmara, la capitale dell’Eritrea.
Il padre, ufficiale di aviazione, era prigioniero degli inglesi e la mamma decise di rimpatriare per non mettere a repentaglio la vita dei figli.
Dora aveva appena compiuto vent’anni e i suoi ricordi sono ancora molto precisi.
“Se volevamo salvare la pelle, fummo costretti a lasciare tutto, proprio tutto.
Uscimmo di casa tirandoci dietro la porta, abbandonando tutto ciò che conteneva. Mobili, coperte, materassi, biancheria, vasellame, pentolame, Enciclopedia Treccani, macchine fotografiche (le migliori e le più attuali di quel tempo, perché mio padre era appassionato) ecc.
Ma fu più doloroso per noi lasciare un baule pieno di ricordi di famiglia, lettere, documenti, fotografie di tutta la nostra vita passata, ecc., tutto perduto per sempre.
Tutti i miei ricordi di scuola: libri, quaderni, lettere fra amiche e compagne di scuola, pensierini ecc. … tutto rimasto in quel baule.
Bisogna trovarcisi, per capire cosa si possa provare a perdere il passato.
Per portare in Italia una foto del mio fidanzato (poi mio marito) la nascosi fra le suole di una scarpa.
Non erano ammessi scritti e foto e penso ancora ad una signora alla quale fu negato di portare l’unica foto del figlio morto.
Questo per farti capire che non ho più nulla del mio passato”.
Ci portarono prima in un campo di concentramento per profughi e lì restammo dal 4 maggio al 6 luglio 1943, quando fummo imbarcati su una delle “Navi Bianche”.
[Dopo avere fatto il periplo dell’Africa] giungemmo nel nostro Mediterraneo, ma invece che a Trieste, dove eravamo destinati, si decise per Taranto.
Ma durante la notte Taranto fu rasa al suolo e così il porto.
Le navi furono costrette a restare in alto mare, finché qualcuno decise di scaricare con le barche tremila donne e bambini, a riva su di un tratto di aperta campagna.
Ci avevano dato un sacchetto, ciascuno contenente un panino, una mela, un formaggino.
E così restammo, buttati a terra, tremila donne e bambini per tre giorni e tre notti.
Finché giunsero dei tedeschi che, aggiungendo poco per volta dei binari, ci portarono su due treni – carri bestiame – dove ci sistemammo alla meglio.
Noi, tornando in Patria, ci aspettavamo accoglienze affettuose, ma, quei pochi che incontravamo nel lungo viaggio, ci guardavano storto, anzi molti ci insultavano perché eravamo tornati (lasciando il benessere) a togliere loro il pane!
Avevano ragione, vedendoci bene in carne, mentre loro erano quasi tutti magri, emaciati, a lutto e con espressioni disperate."
È vero, come qualcuno obietterà, che l’Italia non aveva diritto di trovarsi là, ma loro, le persone, non avevano colpa. Alcuni ci erano nati e cresciuti, altri, come la famiglia di Dora era andata per lavoro e aveva comprato il terreno dove aveva costruito – a proprie spese – la casa, quindi il loro dramma non poteva essere giustificato dalle colpe di una politica miope e retriva.
Purtroppo non abbiamo imparato nulla da millenni di storia.